Questa storia comincia dalla fine. Sedici anni fa muore Andrea Pazienza, il più grande fumettista italiano. Scompare per una morte che non si nomina; le sue biografie riportano solo luogo e data: Montepulciano, 1988. Ma i suoi lettori lo sanno benissimo di cosa è morto, senza che nessuno glielo spieghi. Niente passaparola, basta leggere "Pompeo", in cui Pazienza mette in scena in maniera spaventosamente profetica la sua morte, tre anni prima della sua effettiva scomparsa. Le biografie non ne parlano, dicevamo. Perché, un artista non può morire di overdose? Forse, ma Pazienza non è come gli altri. È l’artista delle "sciabolate di verità e comiche da straccioni" (G. Castaldo). Rappresentò gli estremi della nostra società e personalità, che si scontrano in ognuno di noi, con i suoi personaggi ma soprattutto attraverso la sua vita. E, alla calata del sipario, per quanto ogni lettore vorrebbe fosse ancora vivo, attraverso la sua morte.
Pentothal rappresentava il distacco dai problemi e la fuga in un mondo interiore della fine anni ’70; Zanardi la mancanza di regole e moralità degli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80; Pompeo la resa della società e dell’uomo di fronte alla droga negli anni ’80. E se Pazienza fosse ancora vivo? Chi e cosa avrebbe usato per rappresentare i ’90 e l’inizio del nuovo secolo? Nessuno di noi può dirlo; nessuno di noi può farlo. Quindici-venticinque anni fa nessuno avrebbe mai reso protagonisti un senza-palle, un figlio di mignotta e un tossico. Solo Andrea Pazienza poteva farlo. Perché lui era questi tre personaggi.
Forse la morte di Pazienza ci ha salvati, perché ora noi con lui possiamo essere Pentothal, Zanardi e Pompeo per tutta la vita, senza invecchiare mai. E, forse proprio perché quei tre li conosciamo, possiamo cercare di evitare i loro errori. Senza ripensamenti successivi. Perché, come scrisse l’Andrea in una tavola, non bisogna "mai tornare indietro, neanche per prendere la rincorsa".
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Quest'articolo è stato pubblicato su AnomaliE n°6.
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